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Incarnate: recensione del film con Aaron Eckhart

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Incarnate: recensione del film con Aaron Eckhart

Arriva l’8 febbraio in sala Incarnate, film con protagonista Aaron Eckhart prodotto dalla Blumhouse. In Incarnate  Reduce da un tragico incidente che lo ha lasciato paraplegico e privo dei più cari affetti, il dottor Seth Ember è divenuto col tempo un “incarnato”, un individuo dotato della particolare capacità di immergersi nella psiche di soggetti posseduti da entità demoniache ed esorcizzarli mediante una complessa strategia onirica. Inizialmente riluttante nell’accogliere direttamente dal Vaticano il caso di un bambino tormento da una feroce entità malefica, Seth decide di accettare quando scopre che il demone potrebbe essere lo stesso che ha causato la morte della moglie e del figlio.

Incarnate, il film

Pochi attori possono vantare una carriera cinematografica tanto schizofrenica quanto quella di Aaron Eckhart, bizzarro oggetto hollywoodiano capace di passare apparentemente senza alcuna difficoltà né ritegno da un piccolo capolavoro d’autore come Sully di Clint Eastwood a un imbarazzante aborto spontaneo di genere qual è Incarnate, ennesimo maldestro e mancato tentativo di rivitalizzare un filone ormai privo di sbocchi degni di nota come quello delle possessioni demoniache. L’ormai collaudata formula Blumhouse (rapidità, risparmio, competenza) capace di ottime sorprese in ben altre sedi qui non riesce a replicare il consueto miracolo, generando un prodotto privo di qualunque ragion d’essere che scivola viscoso fra le impacciate dita registiche di un Brad Peyton decisamente anonimo e alquanto ridimensionato dai fasti apocalittici di San Andreas, seppur ben preparato a livello tecnico.

Cercando pietosamente di amalgamare la filosofia dei viaggi astrali di Insidious con la meccanica visionaria degli innesti onirici di The Cell e Inception (facendo un ben magro servizio al capolavoro di Nolan) Incarnate dà origine a una narrazione a metà strada fra i cliché classici del genere diabolico e stantie suggestioni ateo-scientifiche, con il risultato di creare un ibrido che non appare né carne né pesce, nonostante alcune interessanti premesse per una fresca novità tematica fossero obbiettivamente presenti.

IncarnateIl comparto attoriale – con Aaron Eckhart ai minimi storici da I, Frankenstein affiancato dal giovane David Mazouz e dall’affascinante Carice van Houten –  di per sé non può essere accusato di alcun crimine, se non forse di una piattezza generale indirettamente generata dalla mancanza di convincimento per uno script, quello di Ronnie Christensen, farraginoso e privo della materia di base per dare sostanza alla seppur ottima e suggestiva fotografia di Dana Gonzales, capace in più occasioni di occhieggiare a classici come Silent Hill e a gran parte della produzione targata Jason Blum. Peyton tenta il tutto e per tutto sfoderando urli, volti sfigurati, contorsionismo ultraterreno e l’immancabile voce gutturale dal profondo inferno, ma, a conti fatti, Incarnate non può far altro che accartocciarsi su sé stesso senza portare nulla di veramente degno e necessario da giustificare novanta minuti di visione, rivelando ingenuità e difetti dai quali, parafrasando il sottotitolo italiano, sarà davvero impossibile nascondersi.

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